La storia di Grottammare è stata realizzata da Davide Gianferrari [ e-mail ].
Indice Una questione solo apparentemente irrisolta
Le prime tracce di presenza umana nel territorio su cui oggi sorge la realtà comunale di Grottammare risalgono al periodo neoeneolitico: in contrada Collevalle ed in contrada S. Paterniano sono stati ritrovati diversi oggetti in ossidiana e selce (lame, lamelle, falcetti e cuspidi di freccia) riconducibili ad un primo insediamento ivi esistente già duemila anni prima della venuta di Cristo.
E’ tuttavia con l’avvento
della civiltà picena che in questa zona si sviluppò un rilevante nucleo
abitato comprendente un’area sacra che si dimostrò essere la più importante
nella vita religiosa di quella che ancor oggi, per molti aspetti, rimane una
popolazione misteriosa. E’ infatti sulla sponda sinistra della foce del Tesino
che i Piceni eressero il tempio della loro massima divinità: la dea Cupra,
ovvero la dea della fertilità, la grande madre protettrice. Per capire perché
essi si stabilirono in questa località e quale fu la reale importanza del loro
insediamento, che costituì il nucleo primario di quella che nel corso dei
secoli sarebbe poi diventata la cittadina di Grottammare, non ci si può esimere
dal tracciare, ovviamente a grandi linee, la storia di questo popolo
illustrandone almeno le fondamentali caratteristiche. Varie sono le ipotesi
avanzate sull’origine dei Piceni che nella prima età del ferro (circa decimo
- nono secolo a. C.) occuparono il tratto di costa adriatica compresa tra i
fiumi Foglia a Nord e Pescara a Sud e delimitato ad Ovest dagli Appennini.Per gli scrittori antichi (Strabone,
Plinio il Vecchio e Festo) avrebbero avuto origine da una migrazione di Sabini:
un picchio, uccello sacro a Marte dal quale il gruppo trasse il nuovo nome, li
avrebbe guidati posandosi durante il viaggio sul loro vessillo. Il motivo di
questa migrazione sarebbe stato un voto di primavera sacra: presso le antiche
popolazioni era consuetudine offrire agli dei tutti i nati tra il 1° marzo ed
il 30 aprile di un anno di carestia
o di guerra; gli animali venivano immolati mentre i bambini, una volta raggiunta
l’età adulta, all’inizio della bella stagione erano accompagnati ai confini
da dove partivano alla ricerca di nuove terre in cui stabilirsi e fondare nuove
sedi per gli dei nazionali.Ultimamente alcuni storici hanno messo in dubbio la
consuetudine di ritenere i Piceni generati da uno sciame votivo dei Sabini. Alla
luce dei vari ritrovamenti archeologici è stata avanzata l’ipotesi che questo
popolo non sia di derivazione indoeuropea. Solo in epoca successiva ad esso si
sarebbero sovrapposti i Picenti,
cioè appunto quelle tribù italiche del gruppo umbro–sabellico cui fanno
riferimento gli scrittori classici (i Sabini concordemente erano ritenuti una
diramazione degli Umbri). Tuttavia altri studiosi - ed è questa oggi
l’ipotesi prevalente - non fanno distinzione tra Piceni e Picenti e ritengono,
in sintonia con l’antica tradizione, che questo popolo derivi dal grande
gruppo etnico degli Umbro–Sabelli. Per fortuna i vasti rinvenimenti
archeologici di abitati, necropoli e stipi votive oltre a creare discordanza di
opinioni sulla sua genesi, hanno anche consentito di pervenire a maggiori
conoscenze su questa civiltà.E’ stato così appurato che i
Piceni si appropriarono dei territori occupati, non aggregandosi in forti nuclei
(non fondarono mai grosse città), bensì dando vita a piccoli stanziamenti,
dividendosi e disperdendosi per famiglie e per tribù. Questo frazionamento
tribale ha fatto sì che essi non arrivassero mai a costituire un’unità
cosciente della propria autonomia culturale e la loro civiltà, pur con una sua
innegabile caratterizzante fisionomia, si differenziò di località in località,
a volte in modo notevole. Ed è
proprio per questa struttura che si potrebbe definire cantonale, che si può
parlare di confederazione picena.
Perché i Piceni scelsero il territorio di Grottammare Se si associano queste conoscenze su tale civiltà all’analisi del territorio di Grottammare nell’antichità, si capisce perché i Piceni trovarono in esso tutte le caratteristiche ideali per potervi sviluppare un rilevante centro abitato. Non si possono, al riguardo trascurare i profondi mutamenti geomorfologici avvenuti nel corso del tempo in questo luogo: dove oggi insiste una vasta parte del nuovo incasato di Grottammare, in origine si innalzava un ampio promontorio che il mare nel corso dei secoli ha scavato alla base fino a determinarne, dopo varie frane, la scomparsa; e d’altro canto non va dimenticato che la foce del Tesino si trovava diverse centinaia di metri più a monte rispetto all’ubicazione attuale. Varie fonti confermano queste mutazioni del territorio: tutta la cartografia antica disegna il promontorio, dai codici “Urbinate Greco” n. 82 e “Vaticano Latino” n. 5698 della Geografia di Tolomeo fino alla carta topografica della fine del ‘600 (che peraltro si rifà ad altre più vecchie) conservata nella Biblioteca Comunale di Civitanova Marche; più testimonianze storiografiche documentano rovinose frane in mare delle colline sovrastanti Grottammare (la prima di cui si ha notizia è quella del 1103, poi ne seguirono altre). Tanti studi effettuati hanno inoltre illustrato come (gli smottamenti, l’interramento da deposito fluviale, le opere di bonifica) la foce del Tesino sia avanzata provocando così la scomparsa dell’insenatura del mare racchiusa tra il promontorio a Nord e la collina di Monte Secco a Sud. Dunque, come facilmente si intuisce, questo luogo si prestò magnificamente al sorgere dell’importante agglomerato piceno: qui la natura offriva, oltre all’inespugnabile promontorio, sorgenti di acqua, il mare e la foce di un fiume che, riparata dalle intemperie, si prestava ad essere utilizzata come approdo. Gli “invasori” si appropriarono di questa zona subentrando al precedente insediamento neoeneolitico ivi esistente (e si è già detto come la sovrapposizione ai nuclei abitati dell’età del bronzo sia stata proprio una prerogativa del popolo dei Piceni).
Le prime scoperte archeologiche sulle colline di Grottammare risalgono alla seconda metà dell’Ottocento quando il dott. Concezio Rosa, illustre studioso del tempo, trovò le prime tombe della necropoli picena tra contrada S. Paterniano ed il castello di S. Andrea. Nello stilare la sua relazione scientifica (1873), il dott. Rosa tuttavia sottolineò come già prima dei suoi scavi, persone del luogo (in particolare i proprietari dei terreni) avevano ritrovato vasellame vario ed innumerevoli oggetti di bronzo, ferro ed ambra. Costoro però intravedendo la possibilità di immediati e lucrosi guadagni, avevano rivenduto i reperti a collezionisti tacendone l’esatta provenienza al fine di celare le località dei ritrovamenti. Fu così che molti reperti della necropoli picena di Grottammare andarono dispersi, mentre altri risultano provenienti da zone diverse. Le ricerche furono comunque riprese, su invito dello storico On. Alceo Speranza, negli anni 1911-1914, dal professor Innocenzo Dall’Osso, Regio Soprintendente ai Musei e Scavi di Antichità delle Marche e degli Abruzzi. Si deve a questo archeologo l’esecuzione di nuovi scavi che portarono da un lato al ritrovamento dell’intero sepolcreto (oltre 400 tombe) e dall’altro all’individuazione di resti, presso la Chiesa di S. Martino, nei quali egli volle riconoscere il sacello della dea Cupra. Fu questa una ulteriore riprova che proprio in quella zona era da collocarsi il santuario piceno dedicato a tale divinità; quindi proprio quello doveva essere il luogo sacro nel quale convenivano, in pellegrinaggio ed in occasione delle feste religiose, tutte le genti della confederazione picena. E tanta e tale era l’importanza del tempio che gli autori classici (Strabone, Pomponio Mela e Plinio il Vecchio) chiamarono Cuprae oppidum la località, dando così il primo nome a Grottammare (anche citata come Cuprae Fanum o Cupra Maritima).
Una
questione solo apparentemente irrisolta Sulla reale ubicazione del tempio di Cupra Si è detto sopra
che la scoperta del Dall’Osso si presentò come nuova e rilevante prova
al fine di individuare l’esatta localizzazione del santuario. A tale riguardo
esisteva da tempo una vivace disputa. Fino al XVI–XVII secolo tutti gli
storici (il Biondo, il Garzoni, l’Adami ed il Cluverio) concordemente avevano
affermato che il paese di Grottammare si identificava con l’antica Cupra
Maritima indicando pertanto nel suo territorio (e specificamente lungo la
sponda sinistra del Tesino, nei pressi della Chiesa di S. Martino) il luogo ove
sorgeva il sacro edificio. Nel Settecento invece, sulla scorta di alcuni
rinvenimenti archeologici, certuni eruditi (il Paciaudi, il Lancellotti, il
Catalani ed in particolare il Colucci) cominciarono a sostenere che esso era da
individuarsi in alcuni ruderi riaffiorati nell’allora paese di Marano (oggi
Cupra Marittima) e precisamente lungo la foce destra del fiume Menocchia (area
attualmente conosciuta come Civita di Cupra Marittima). Ne scaturì un’aspra
disputa - già nel 1783 l’abate Polidori, studioso grottammarese, prontamente
scrisse le Opposizioni alla Cupra Maritima
illustrata del Colucci essendo poi seguito nella sua tesi dal Masdeu, dal
Vicione e dallo Speranza - che in parte, nonostante gli schiaccianti riscontri,
qualcuno si ostina a trascinare ancora oggi. Comunque appare ormai certo che la
controversia nacque dall’errata convinzione che gli scavi, eseguiti per la
prima volta dal Colucci alla Civita di
Cupra Marittima, avessero riportato alla luce i resti del santuario pagano. Quei
rinvenimenti, peraltro di grosso valore, invece dimostrano soltanto
l’esistenza in quell’area di un centro abitato di epoca romana.
Le prove che attestano il tempio in S. Martino Oltre al ritrovamento del sacello della dea comunque, numerose altre testimonianze confermano il santuario piceno presso la pieve di S. Martino in Grottammare. All’interno della Chiesa esiste una lapide del 127 d. C. murata in un pilastro della navata di destra che commemora il restauro del tempio ad opera dell’imperatore Adriano. Sotto l’epigrafe è collocato un cippo quadrato di travertino, che oggi funge da acquasantiera, sul quale è scolpito un elmo con corna di montone: l’archeologo Gamurrini, confrontandolo con vari altri rinvenimenti, già sul finire dell’Ottocento sottolineò come l’elmo con corna di montone fosse tipicamente piceno. Altro reperto da tenere in considerazione è il grande capitello di pietra arenaria sul quale poggia il cippo. Esso presuppone un grande pilastro sottostante e dunque avvalora la teoria delle colonne che sostenevano il tempio. Per la forma e per il materiale di cui è costituito è sicuramente riconducibile ad un’epoca antecedente al restauro effettuato da Adriano. Sopra la porta di ingresso della Chiesa è inoltre affisso un mezzo piede di marmo che, sia pur in mancanza di prove certe, sembra essere appartenuto ad una statua (poi perduta) dello stesso imperatore. Davanti all’entrata si ergono poi i ruderi di un muro sul quale molto bisogna dire. Ciò che attualmente si vede è una piccola parte di quello che trovarono ed esaminarono il Gamurrini nel 1886 e il Dall’Osso nel 1911. Questi due studiosi effettuarono degli scavi che riportarono alla luce importanti resti, peraltro ben descritti nelle loro relazioni. Il Gamurrini (che ha lasciato anche una piantina dei ritrovamenti da lui compiuti) evidenziò l’esistenza di un complesso termale, forse voluto da Adriano per dar lustro al sacro edificio. Il Dall’Osso invece, come detto, dal suo lavoro di ricerca trasse gli elementi che lo portarono ad individuare il sacello della dea. Il 29 luglio 1911 egli inviò una dettagliata relazione alla Direzione Generale del Ministero per le Antichità in Roma nella quale si legge: “… Si è messo allo scoperto una vasta rete di muri…sono state dissepolte le costruzioni di due ambienti in prosecuzione l’uno dall’altro, il primo di forma quadrata, l’altro rettangolare, con tracce di quattro pilastri nei lati maggiori e ingresso verso Sud. La straordinaria potenza dei muri fatti in calcestruzzo, la platea dei parallelepipedi calcarei del primo vano e soprattutto la pianta dei due ambienti ci obbligano a riconoscere in essi la cella col relativo pròstylon del tempio della dea Cupra…”. In seguito il Dall’Osso giustificò questa sua conclusione con ulteriori considerazioni. Oggi, di tutti quei resti studiati e descritti dai due archeologi nulla rimane se non appunto l’antico muro antistante la Chiesa. Comunque sempre al Dall’Osso si deve anche un'altra importante scoperta per fortuna giunta fino ai nostri giorni. Egli rinvenne, all’interno della Pieve, una vasca per battesimo ad immersione tipica del periodo paleocristiano. Essa va messa in relazione con una lastra marmorea di chiaro stile bizantino in cui sono raffigurate due colombe che si abbeverano alla stessa fonte. I diversi e straordinariamente ricchi reperti che ancora sono conservati in quella che oggi è la chiesa di S. Martino sono l’ovvia dimostrazione che in questo luogo il culto non fu mai interrotto e che dunque il tempio pagano venne relativamente presto trasformato in cristiano: cosicché nel nono secolo i monaci farfensi qui fondarono il loro complesso monastico. Ed in proposito è da rimarcare che già gli stessi monaci consacrarono la Chiesa a S. Martino, il vincitore del demonio, a significare il trionfo di Cristo sui vecchi idoli. A concludere infine il lungo elenco degli indizi e delle prove che permettono di localizzare il tempio di Cupra in S. Martino sta la grande vasca (12 metri circa di diametro) situata settecento metri più ad Ovest e conosciuta come “Bagno della Regina”. Per la sua forma e per la sue fattezze è stato escluso che questa vasca circolare di epoca romana potesse fungere da serbatoio o da riserva di acqua. E’ dunque presumibile che servisse per le rituali abluzioni sacre dei fedeli che arrivavano in occasione dei pellegrinaggi e delle feste religiose.
Appurata così la reale esatta ubicazione del sacrario di Cupra, è necessario svolgere una riflessione su quanto riferito da Silio Italico (poeta latino del primo secolo d.C.): nel suo “De Secundo Bello Punico”, l’autore afferma che fra le file dell’esercito romano impegnato nella battaglia di Canne erano presenti in qualità di alleati “queis litoreae fumant altaria Cuprae” (quelli i cui altari fumano nel litorale di Cupra). L’apparente contraddizione riscontrabile tra l’odierna ubicazione della chiesa di S. Martino-santuario dea Cupra ed i litoreae altaria Cuprae di Silio Italico è stata presto risolta tenendo in considerazione da un lato i grandi sconvolgimenti geomorfologi avvenuti nel corso dei secoli (meglio sarebbe dire millenni) nel territorio di Grottammare e dall’altro il conseguente progressivo arretramento della linea di costa (fenomeni questi in precedenza già descritti). E’ stato così possibile giungere alla conclusione che il tempio si innalzava su di una piccola collina lambita dal mare, presso la rada alla foce del Tesino. Dunque il santuario era situato lungo la costa, presso la foce del fiume ed è stata anzi avanzata anche l’ipotesi che esso si ergesse proprio sull’estremità di un molo naturale.
La supposizione è peraltro avvalorata dal fatto che i Cuprensi si servirono, per i loro traffici marittimi, del porto marino-fluviale che il territorio qui presentava. Si è già fatto cenno alla vivacità dei Piceni negli scambi commerciali in Adriatico sin a partire dalla prima età del ferro: così nella necropoli cuprense sono stati rinvenuti diversi oggetti (statuine, vasi, fusaiole ed utensili vari) riconducibili ad altre civiltà pre-romane. Il materiale, oltre al suo valore intrinseco, dimostra appunto come gli antichi abitanti del posto siano entrati in relazione con gli altri popoli affacciati sull’Adriatico (Greci, Apuli ed Etruschi adriatici in particolare) anche se le testimonianze archeologiche relative alla vita del porto piceno rimangono comunque poche. Vanno tuttavia segnalati i reperti di fasciami di legno per imbarcazioni (rinvenuti presso S. Martino) ed i grossi massi, con evidenti solchi provocati da funi, usati come bitte per l’ormeggio del naviglio (recentemente rinvenuti non a caso in località S. Biagio, cioè poco più a monte di S. Martino).
La vittoria dei Romani sui Piceni, nel 269 a. C., segnò inizialmente un periodo difficile nella storia di Cupra Maritima. Presumibilmente infatti l’agglomerato venne distrutto e la sua popolazione dispersa. I vincitori, per motivi di sicurezza, rifondarono il nuovo centro abitato presso l’odierna Cupra Marittima, cioè in un luogo più indifeso e più facilmente raggiungibile poiché situato in un tratto meno aspro della costa. I tanti resti affiorati in questa località stanno proprio a dimostrare che lì fu costruita la colonia militare. In seguito però, raggiunta una maggiore stabilità, i Romani diedero sfoggio come sempre di grande liberalità e tolleranza: ecco quindi la rinascita dell’antico oppidum. Il restauro del tempio di Cupra ad opera di Adriano è proprio la dimostrazione che, nonostante tutto, gli abitanti della zona non abbandonarono mai l’originaria area di culto e che i Romani rispettosamente consentirono la rinascita del centro abitato. A parte i resti presso la Chiesa di S. Martino, alcuni frammenti di mosaici, poche anfore e qualche tomba sovrapposta a quelle picene, purtroppo ben poco è rimasto della Cupra Maritima romana. I tremendi eventi naturali (frane e terremoti) hanno fatto scomparire il promontorio di Grottammare e ogni traccia dell’oppidum che su di esso sorgeva. Non rimane quindi che affidarsi agli storici del passato per la descrizione di quello che oggi non esiste più: essi fino al Quattro–Cinquecento parlano unanimemente di resti visibili dell’epoca romana. Basti portare come esempio quanto annotato dal Garzoni (seconda metà del ‘400): egli afferma che non lontano dal Tesino esisteva una città antichissima ormai distrutta e della quale rimaneva solo il tempio di S. Martino, dove peraltro confluiva una gran quantità di fedeli per sciogliere voti.
Occorre infine svolgere altre considerazioni sul porto. Lo storico Mascaretti nell’Ottocento descrive un molo, a lui ancora visibile ai piedi del vecchio castello, le cui strutture egli fa risalire ad un lontano passato. Poiché dello scalo marittimo di Grottammare si parla già in un documento del 1040 e poiché è risaputo che durante l’alto Medio Evo nelle Marche meridionali non è stato costruito alcun porto (eccetto quello di Fermo nel 1164), è da ritenere che quella banchina risalisse all’epoca romana. Dunque, tenendo presente che in età picena l’attracco avveniva nei pressi della foce del Tesino, si desumono in modo evidente le prime mutazioni della costa già in atto nell’antichità: i primi cedimenti del promontorio avevano “costruito” un molo naturale più a Nord. Ne consegue quindi che l’area destinata all’approdo, nel periodo romano, si era ingrandita: dai pressi del tempio di Cupra essa si estendeva fino a quella banchina naturale (che fu successivamente fortificata in epoca medievale) formatasi in seguito ai primi smottamenti proprio sotto l’oppidum. Dunque si può affermare con certezza che il porto in epoca imperiale si ritrovò ad essere ampliato e perfettamente funzionante (come dimostrano anche i recenti rinvenimenti di un ancora e di una imbarcazione nelle acque antistanti Grottammare
Da Cupra Maritima a Grocta
Grottammare nel basso Medioevo
Da Cupra Maritima a Grocta
Il crollo dell’impero romano d’occidente (476 d.C.) fece
sprofondare tutto il Piceno in uno dei periodi più bui della sua storia. La
regione fu sconvolta dalla devastante guerra Goto–Bizantina (535-553 d.C.) e
la situazione non migliorò certamente con la successiva invasione longobarda (a
partire dal 569 d.C.). Questo continuo susseguirsi di conflitti, con conseguenti
carestie e pestilenze, determinò ineluttabilmente la scomparsa della tranquilla
e florida Cupra Maritima: all’antico
splendore di un tempo subentrò, tra il sesto e l’ottavo secolo, un totale
stato di distruzione ed abbandono. Tuttavia la vasca per battesimo
paleocristiana ed il bassorilievo in stile bizantino che si trovano nella Chiesa
di S. Martino rappresentano un sia pur flebile segnale di vitalità
riconducibile a quel cupo periodo. Evidentemente sulle rovine del tempio di
Cupra era sorta una pieve frequentata dalla sparuta popolazione della zona non
più per festeggiamenti pagani bensì per adempiere ai riti della nuova e
trionfante religione cristiana. Tra l’ottavo ed il nono secolo, nell’antico
luogo di culto giunsero i monaci farfensi: essi, utilizzando i materiali da
costruzione di epoca romana, edificarono il monastero di S. Martino impadronendosi al contempo di tutti i beni gravitanti attorno
all’area sacra picena. Anche qui come altrove compito dei religiosi furono la
bonifica, il presidio del territorio (non va dimenticata la presenza del porto,
anche se in stato di abbandono) e l’assistenza sia materiale che spirituale
degli abitanti del posto.
L’incertezza e l’anarchia comunque continuarono anche
nel X che nell’XI secolo: i primi documenti, risalenti proprio a questo fase
storica, evidenziano un notevole frazionamento della zona. Non essendosi ancora
instaurata una rigida gerarchia feudale i tanti signorotti locali si suddivisero
il controllo del territorio. Sorsero così varie “curtes” fra le quali vanno
ricordate quelle del castello d’Ischia, del castello di Stablo, di S. Vincenzo
(dislocate tutte a Sud del Tesino) e quella ben più importante di S. Paterniano
(con il castello di Carrello ed il porto). Tante pergamene, datate tutte tra il
1030 ed il 1040, dimostrano come i due poteri forti del tempo, e cioè il
vescovo-conte di Fermo e l’influente abbazia di Farfa, si disputarono
vanamente il controllo della zona. Al centro della contesa fu principalmente il
più ricco dei possedimenti: il monastero di S. Martino con tutte le sue
proprietà. Dal primo documento del 1030 si apprende che un certo Trasmondo,
figlio di Teselgardo, donò la “curtem Sancti Martini” al vescovo di Fermo
Uberto e tale volontà sembra riaffermata in un altro atto del 1033. In realtà
però nel 1038 un tale Longino, figlio di Azone, donò il convento, ovviamente
con tutti i poderi annessi, all’Abbazia di Farfa. Infine una pergamena del
1039 riferisce la cessione della corte di “S. Angelo in Villa Maina” da
parte di Trasmondo ai potenti monaci laziali in cambio di S. Martino. Da questa
serie di carte appare del tutto evidente che sia il Vescovo che l’Abbazia
tentarono, inducendo donazioni a loro favore e pretendendo gesti di
sottomissione, di allargare le proprie sfere di influenza nella zona. Gli atti
di vassallaggio da parte dei signorotti locali appaiono comunque decisamente più
formali che sostanziali: schierandosi ora con l’uno ora con l’altro
contendente, a seconda delle convenienze, essi rimasero i veri padroni del
territorio.
La situazione si stabilizzò solo nel XII secolo quando
finalmente i monaci farfensi riuscirono a prendere il sopravvento. In una
importante pergamena del 1103 compare per la prima volta il termine Gructa
con il quale, da questo momento in poi, si iniziò ad indicare il castello
costruito, molto probabilmente dai religiosi stessi, sull’alto del colle di
Grottammare (successivamente si usarono per individuare la rocca anche i termini
Crypta o Grocta ad Mare).
La rocca, edificata in un punto strategico (il monte era ancora a picco sul
mare), richiamò intorno a se la popolazione del luogo che abbandonò gli altri
preesistenti, ma meno sicuri fortilizi. Si formò così un piccolo stato
monacale e guerriero tutto gravitante intorno al cenobio ed al castello che,
resistendo ai pericoli ed alle insidie di quel tempo, mantenne la sua autonomia
per oltre cento anni. Due furono i nemici principali del feudo farfense: i
pirati saraceni, che già avevano iniziato le loro scorribande in Adriatico, ed
il partito guelfo capitanato dal Vescovo fermano. E’ noto che durante la lotta
per le investiture, il monastero di Farfa si schierò apertamente dalla parte
degli imperatori, almeno fino al Concordato di Worms del 1122, cosicché in
quegli anni l’astio di vecchia data fra i monaci ed il Vescovo ebbe modo di
accrescersi per sfociare, come si vedrà in seguito, negli scontri aperti di
inizio XIII secolo.
Lo sbarco di Papa Alessandro III e la Sagra Vuole la tradizione che nel 1175 sul litorale di Grottammare
sia attraccato Papa Alessandro III e che da questo evento abbia avuto origine la
festa della Sagra Giubilare. Secondo la leggenda una tempesta costrinse le sette
navi che scortavano il Pontefice in viaggio, a riparare nel porto del borgo.
Alessandro III, perseguitato da Federico Barbarossa e dall’antipapa, si era
rifugiato in Sicilia presso la corte di Guglielmo il Buono; alleatosi alla Lega
Lombarda, fu colto da quel fortunale, proprio mentre stava navigando alla volta
di Venezia per unirsi ai Comuni insorti contro l’imperatore. I monaci, ormai
sottomessi all’autorità pontificia, accolsero il vero capo della Chiesa e lo
ospitarono per alcuni giorni nel loro convento. Il Papa poté così assistere
alla tradizionale festa del primo luglio che si celebrò, come sempre, in quella
che una volta era stata la sacra area della dea Cupra. Quei festeggiamenti,
ovviamente da tempo trasformati in cristiani,
erano di evidente derivazione pagana come ben si intuisce dal fatto che le
arcaiche popolazioni italiche il 24 giugno celebravano la Dea Fauna o Bona Dea
(qui identificabile con la dea Cupra) mentre il primo luglio festeggiavano il
Pater Janus (probabilmente nella zona assimilato a Faunus, sposo di Fauna). In
quel lontano 1175 il primo luglio cadde di domenica e nei pressi di S. Martino
si adunarono così tanti pellegrini che il Papa, commosso ed ammirato, stabilì
che ogni anno in cui il primo luglio fosse caduto di domenica, ai fedeli qui
convenuti sarebbe stata concessa un’indulgenza plenaria. La leggenda vuole che
il Pontefice, toltosi il camauro, lo abbia riempito di sabbia dichiarando che
tanti dovevano essere gli anni di indulgenza quanti i granelli contenuti nel suo
copricapo.
Lo sviluppo del borgo e le guerre contro il Vescovo
di Fermo Per capire l’evoluzione dei fatti nella realtà locale
durante il corso del XII secolo appare importantissima anche l’analisi di un
diploma imperiale di Enrico VI datato 10 luglio 1193. Con questo documento
l’imperatore promosse personalmente l’infeudazione di un ampio territorio
comprendente il castello di Gructa (e
ciò chiaramente dimostra l’importanza strategica della rocca): beneficiario
del feudo fu un certo Maurizio figlio di Attone di Mozano che venne anche
incaricato di dirimere eventuali dispute fra i monaci e gli abitanti del piccolo
paese. Nello stesso documento Enrico VI confermò però il possesso del
monastero di S. Martino, con tutti i suoi beni (fra i quali figura ovviamente il
borgo-fortezza), all’abate Walterium ed ai suoi successori. Inquadrando il
contenuto della pergamena nel contesto storico di quel tempo si evidenziano due
aspetti di grande importanza. Grazie alla pace di Costanza (1183)
l’istituzione imperiale aveva scongiurato il peggio e conseguentemente aveva
ripreso la sua politica di opposizione al potere temporale del Papa. Anche i
monaci farfensi, che come detto erano stati simpatizzanti ghibellini della prima
ora, si rischierarono al fianco di Enrico VI il quale, evidentemente, li volle
premiare riconfermando loro tutti i possessi nel territorio di Grottammare. La
seconda considerazione da svolgere riguarda l’incarico affidato al feudatario
di sentenziare sulle controversie fra i monaci e la popolazione del luogo.
Dunque anche qui, come altrove, attorno alla fortezza si stava ormai sempre più
sviluppando un centro abitato ed il sorgere di contese sta proprio a
testimoniare i continui tentativi di affrancamento del borgo dal dominio dei
vecchi padroni. Tuttavia il potere dei farfensi restò ancora molto forte tanto
che il castello nel 1208 si ritrovò ad essere ancora una volta al fianco dei
religiosi nell’interminabile lotta contro il Vescovo di Fermo il quale, come
detto, non aveva mai abbandonato le sue mire espansionistiche. In quell’anno
l’alto prelato Adinulfo, alleatosi con i Ripani, mosse guerra ai monaci che
per tutta risposta si strinsero in una lega ghibellina con i signori di
Montefiore e Boccabianca. Le fortezze filoimperiali furono assediate: caddero le
rocche di Marano, di Boccabianca e di Massignano, ma il castello di Grottammare
si rivelò ancora una volta inespugnabile.
Il paese cominciò a perdere la sua autonomia solo nel 1214
quando il Marchese della Marca, Aldobrandino d’Este, (schieratosi con il
preponderante partito guelfo) lo consegnò, cum
suo portu, al Comune di Fermo (ormai anch’esso liberatosi dal dominio del
suo Vescovo). Tuttavia quella cessione non ebbe pieno effetto, probabilmente per
l’opposizione degli ancora potenti monaci, poiché da un altro documento del
1248 si apprende che fu il Cardinale Ranieri, legato pontificio, a concedere
alla città di Fermo il Girone Gructarum
ad mare cum suo portu: e si deve ancora notare che in questa pergamena il
Ranieri fece riferimento solo al “Girone” (delle cui mura venne sollecitato
un restauro poiché provate dagli assedi sostenuti), ma non al monastero di S.
Martino che presumibilmente mantenne la sua autonomia e forse continuò ad
esercitare una certa influenza sulla vita del borgo. L’assoggettamento di
Grottammare al Comune di Fermo avvenne definitivamente solo nel 1258, quando
Manfredi, re di Sicilia, cacciò i monaci e cedette il castello con il
sottostante porto a quella Città nel tentativo di ingraziarsela nella sua
guerra contro il Papa.
Grottammare
nel basso Medioevo Vicende del Monastero di S. Martino L’intervento di Manfredi determinò dunque la scomparsa dell’atavico connubio fra il centro abitato ed il sacro luogo sul quale era sorto il tempio di Cupra prima ed il cenobio di S. Martino poi. In un documento del 1273 il monastero appare già di proprietà del Vescovo di Fermo che quasi certamente lo affidò ai Camaldolesi. Il convento però perse inesorabilmente importanza e già all’inizio del XV secolo risultò essere quasi in stato di abbandono tanto che il presule fermano ne sollecitò un restauro. Nel XVI secolo, quando per volontà pontificia Grottammare passò sotto la diocesi di Ripa, il Vescovo di Fermo chiese ed ottenne di mantenere la sua giurisdizione sulla chiesa. Tuttavia la decadenza del monastero continuò fino alla sua deturpazione finale avvenuta nel 1614: l’alto prelato di Ripa Poggi ebbe il permesso dal suo collega fermano di rimuovere tutto il materiale profano ancora presente nella pieve, l’ultimo edificio rimasto in quella zona dall’illustre passato. La lapide di Adriano e gli altri pochi reperti sfuggiti a quell’iniziativa distruttrice furono infine salvati nel 1743 dall’illuminata figura dell’Arcivescovo fermano Borgia che li fece collocare là dove tuttora si trovano. L’unico evento che continuò (e che continua tutt’oggi) a ricondurre gli abitanti del posto nel primordiale luogo di culto fu la tradizionale festa della Sagra: a tal proposito basti pensare che le cronache settecentesche parlano di oltre 40.000 fedeli qui convenuti per lucrare le indulgenze. Naturalmente diverse furono le sorti del paese che dal 1258, come detto, era divenuto proprietà di Fermo.
Al castello di Grocta, dopo la cessione di Manfredi, venne subito imposto lo statuto comunale fermano cosicché la designazione dei suoi organi giurisdizionali e politici fu competenza esclusiva di quel Comune. Tuttavia il borgo continuò a godere di una certa indipendenza ed ebbe anche una rilevanza politica nella vita del suo capoluogo. Infatti i sessantacinque castelli soggetti a Fermo erano suddivisi, a seconda della loro grandezza e sicurezza (fattore quest’ultimo importantissimo), in tre categorie: Castra Maiora, Castra Mediocra e Castra Minora. Grottammare fu il principale fra gli otto Castra Maiora e trasse benefici da questa sua condizione. Nello Stato fermano il potere esecutivo era esercitato dal Consiglio di Cernita che vedeva le sue decisioni discusse, per essere approvate, modificate o respinte, dal Consiglio Speciale. Ad affiancare questo “parlamento” stava il Consiglio Generale, organo nel quale trovavano rappresentanza i vari castelli assoggettati. Nel Consiglio Generale, dove si discuteva delle tasse, delle gabelle e dei contributi per le spese militari che i diversi centri dovevano alla città di Fermo, Grottammare aveva diritto a due delegati. Inoltre la sua notevole autonomia amministrativa si concretizzò anche attraverso un Consiglio di quarantotto membri, scelti fra le principali famiglie del posto, che aveva la facoltà di imporre imposte ed emettere ordinanze locali. Dalla competenza di questo organo esulavano però la pesca ed il commercio: queste attività erano regolamentate direttamente da Fermo che detraeva anche un tributo dal ricavato delle tasse. Compito dei quarantotto era pure l’elezione di quattro “Massari” che esercitavano il potere esecutivo e rimanevano in carica per due mesi. La giustizia era invece affidata ad un “Vicario”: esso era sempre un cittadino fermano, eletto mediante estrazione a sorte, e rimaneva in carica per sei mesi. Risale al 1289 un documento di questo Comune nel quale si danno disposizioni per la retribuzione di due suoi cittadini (Antonio e Gualtiero Monaldi) che in quell’anno avevano ricoperto l’incarico di “Vicari” in Grocta. Pure in questo periodo storico la particolare attenzione nei confronti di Grottammare si rivela ancora in due circostanze. Nel 1276 la città, punita dal Papa per avere attaccato la vicina Monte San Pietrangeli, fu costretta a cedere il castello al Rettore della Marca di Ancona, Falcone de Podio Ricardi. Due anni dopo, umiliata e pentita, implorò la Santa Sede di restituirle Castrum Cryptarum ad Mare; il Papa Niccolò III accettò le scuse ed accolse la supplica. Nel 1299 poi la civitas provvide a proprie spese ad effettuare lavori di restauro e di manutenzione nel porto di Grottammare che andava insabbiandosi. Nel documento si legge che Joannis Princivalle sindaco comunis Firmi… diede incarico al genovese Alessandro Bosi di laborare ac laborari facere in portu et ad portum civitatis firmanae sito et situm ante Castrum Gructarum ad mare…. Nel 1355 il rapporto di dipendenza amministrativa è riconfermato da una lettera del cardinale Albornoz nella quale l’alto prelato ordina ai rappresentanti dei castelli della zona (fra i quali figura ovviamente anche Grocta) di rinnovare il giuramento di fedeltà a Fermo. Un’importante pergamena del 1365 aiuta poi a comprendere la situazione demografica del paese in quel periodo. Essa è un elenco di 114 “Fumantes” ossia coloro che dovevano pagare la tassa del fumo, anche detta “colletta del fuoco”. Tale imposta, che serviva per finanziare dei servizi utili a tutta la collettività, era versata solo dai capi famiglia che avevano la propria casa nell’ambito della giurisdizione amministrativa del castello. Se ne deduce quindi una realtà demografica ben più ampia ed articolata che testimonia la crescita del borgo. Dal 1405 al 1428 lo Stato di Fermo fu governato, per conto del Pontefice, dal marchese Ludovico Migliorati che volle trattenere sotto il diretto controllo della Santa Sede la fortezza di Grocta per quanto, morto il nobile reggente, un cittadino del capoluogo riscattò il castello pagandolo 900 fiorini d’oro. Martino V, con una sua bolla papale del 1428, ordinò però al Comune di rimborsare al generoso cittadino la cifra versata.
Nel 1442 Francesco I Sforza, impegnato nell’assedio di Ripa, lasciò nella rocca di Grottammare la moglie Bianca Maria Visconti e le sue riserve. Sono sicuramente riconducibili a questo episodio bellico e alle continue lotte tra Fermo ed i Comuni alleati di Ripa ed Ascoli gli avvenimenti accaduti nel 1444. In quell’anno un certo Bastiano di Canossa uscì dal castello sorprendendo una colonna di Ripani che scortava un carico di grano. L’imboscata ebbe pienamente successo ed i malcapitati, oltre a perdere la merce e venti cavalli, furono fatti prigionieri. La rappresaglia fu immediata: alcuni giorni dopo i Ripani e gli Ascolani, sconfitti i Fermani a Comunanza, posero l’assedio a Grottammare. La fortezza tuttavia si mostrò inespugnabile ed allora per ritorsione furono saccheggiati i campi ed incendiate le barche nel porto. La lotta continuò ancora e nel 1448 i Fermani, capitanati da Cola di Simone Palmeroli e Vanne di Arquata si presero la rivincita battendo gli avversari ed impadronendosi dell’importante rocca di Acquaviva. Per difendere questa strategica conquista nel 1450 Fermo obbligò i suoi castelli - fra i quali figura ovviamente Grocta - a dare un soldato per ogni famiglia. A questo punto però iniziò uno dei periodi più travagliati della storia di Grottammare.
La
frana del 1451 e la decadenza Nel 1451 si verificò una nuova spaventosa frana in mare che fece scivolare gran parte del paese verso levante: ben immaginabili le tragiche e luttuose conseguenze di questo evento. Lo smottamento tra l’altro precipitò in mare l’enorme zolla sulla quale era stata edificata la Chiesa di S. Nicola, adagiandola al fianco di un altro preesistente grosso scoglio denominato Sasso Piccuto (il rudere rimase in acqua fino al XIX secolo). Lo stesso cedimento pregiudicò poi la sicurezza del castello nel suo lato Est poiché addolcì ulteriormente la pendenza del colle: una drammatica descrizione del luogo, ancora accidentato e disastrato, è fornita nel 1460 da un certo Paltroni che si trovava al seguito di Jacopo Piccinino (quest’ultimo inseguito da Federico di Montefeltro e Alessandro Sforza i quali, prima e dopo la battaglia di S. Fabiano d’Ascoli, sostarono con le loro truppe a Grottammare). Fu così che negli anni immediatamente seguenti il paese, gravemente danneggiato, subì ripetuti assalti da parte dei pirati turchi. Questi, oltre a depredare e saccheggiare, erano soliti catturare ostaggi per chiedere riscatti. Alcuni documenti del 1479 riportano le tribolate vicende del grottammarese Vanni Orlannini per ottenere il rilascio del fratello Cristoforo e delle altre sue sorelle: pur avendo pagato una forte somma egli non ottenne la liberazione dei congiunti e dovette supplicare le autorità fermane di intervenire direttamente. Fu così che dopo un ulteriore riscatto di 41 ducati d’oro, si poté infine giungere alla positiva soluzione della vicenda. A testimoniare il difficile momento storico attraversato
allora da Grottammare sta anche un documento del 1487 in cui è detto che
soltanto 82 capifamiglia erano tenuti al pagamento della tassa sul fumo. Appare
quindi del tutto evidente l’impoverimento demografico e lo scadimento politico
e militare del castello nella seconda metà del XV secolo.
Il momento più difficile e la
definitiva rinascita Nei primi decenni del XVI secolo
Grottammare attraversò ancora un forte periodo di crisi: il borgo stentava a
risollevarsi dopo il devastante smottamento del 1451 mentre le incursioni dei
pirati proseguivano con costanza e ferocia. Particolarmente grave fu l’assalto
del 1525 operato dagli Ottomani provenienti da Dulcigno (città situata
nell’attuale Montenegro): sbarcati in segreto, riuscirono a penetrare di
sorpresa nel centro abitato, saccheggiandolo, depredandolo e commettendo ogni
genere di atrocità. Davanti ad una tale tragedia, Fermani e Ripani, sospesero
la loro rivalità ed accorsero insieme a liberare lo sfortunato paese dal comune
nemico.
Nel periodo in cui si sviluppò il fenomeno del brigantaggio (a cavallo fra il XVI e XVII secolo), Grottammare assunse una notevole importanza logistica per il controllo del territorio. Vi risiedevano un maresciallo ed un capitano ai quali spettava la responsabilità della sorveglianza su tutti i paesi marittimi compresi tra i fiumi Aso e Ragnola. La cittadina mantenne sicuramente questa sua caratteristica di borgo fortificato per tutto il XVII secolo tanto da poter rivestire un ruolo non secondario durante la guerra per il ducato di Castro (1640–1643): prescelta dai generali pontifici, divenne una base strategica fondamentale nella difesa di tutto il tratto di costa tra Ancona ed il fiume Tronto. Vi vennero dislocate numerose truppe per rintuzzare gli attacchi delle galee venete; il castello, la cinta muraria ed il torrione furono rafforzati e muniti di altri cannoni, mentre nel porto le navi da guerra fecero scalo per rifornirsi ed armarsi.
Il continuo sviluppo nei secoli XVII-XVIII Va rilevato tuttavia che sarebbe
comunque un grave errore considerare Grottammare, nel Sei-Settecento, come una
semplice piazza d’arme. In realtà la cittadina si andava sempre più
sviluppando: si è già detto della scuola voluta da Sisto V, ma non bisogna
dimenticare il fiorire dell’attività portuale, il sorgere di nuove chiese e
residenze nobiliari nonché la costruzione di un ospedale. La pésca ed il
commercio marittimo contribuirono in modo determinante al miglioramento delle
condizioni economiche della popolazione: si verificò una costante crescita
demografica peraltro ben evidenziata dall’incremento dei luoghi di culto. Nel
1590, grazie alle elargizioni di Camilla Peretti, sorella di Sisto V, fu eretta
la Chiesa di S. Lucia. La donatrice fece abbattere la sua casa, dove era venuta
alla luce con il fratello, per farvi innalzare l’edificio sacro a sue spese;
inoltre volle che nella pieve fosse istituita una collegiata per i religiosi
officianti e a tale scopo mise a disposizione una forte somma di denaro.
Il nuovo incasato alla marina e
gli scontri del 1799 Il 25 gennaio 1779 si verificò una
nuova frana destinata a dare una svolta decisiva alla storia di Grottammare.
Pochi mesi dopo lo smottamento, il governo pontificio, constatato ormai
l’arretramento del mare e l’interramento avvenuto alla base del colle,
decise di dare l’avvio alla definizione del piano regolatore del Nuovo
Incasato alla marina. A coloro che avevano avuto la casa distrutta o danneggiata
dalla frana, furono concessi un lotto di terra gratuito ed una piccola somma di
denaro per iniziare l’edificazione delle case. L’estensore del piano
regolatore fu l’architetto Pietro Augustoni che ebbe anche l’incarico di
dirigere i lavori. Sorsero allora fra gli abitanti innumerevoli liti e discordie
circa l’assegnazione dei lotti e le procedure di costruzione. Ad infervorare
gli animi e a provocare nuovi dissidi si aggiunse poi il primo intervento di
Napoleone in Italia. I Grottammaresi si divisero in due fazioni contrapposte: i
sostenitori della conservazione da una parte (e furono la maggioranza) ed i
rivoluzionari dall’altra. Negli anni 1798-99 episodi di scontri si
verificarono in tutto il Piceno, ma alla fine il partito papalino prese il
sopravvento e Grottammare divenne una delle sue roccaforti: sui suoi bastioni
ricomparvero i cannoni e nel suo porto tornarono nuovamente ad armarsi le navi
da guerra.
Lo
splendore in età Napoleonica Il secondo intervento di Napoleone in Italia (1800) e la conseguente formazione del Regno Italico (governato da Eugenio Beauharnais, figliastro del Bonaparte) produsse modifiche sostanziali all’assetto territoriale delle Marche. Grottammare venne presa in grande considerazione dalle autorità filofrancesi tanto che finalmente le fu riconosciuta la piena autonomia da Fermo. La cittadina fu dichiarata anche “Giudicatura di Pace” e da essa dipendevano, oltre a S. Andrea e Marano (l’odierna Cupramarittima, che già era sua frazione dal 1798 ), anche San Benedetto del Tronto, Acquaviva e Monteprandone. Fu il rilevante sviluppo economico raggiunto dal paese a determinarne, in quegli anni, la supremazia sui centri limitrofi. La decisione di Napoleone di imporre il cosiddetto “blocco continentale” per danneggiare il commercio inglese fece la fortuna degli armatori e dei marinai grottammaresi: poiché il controllo dei mari era saldamente in mano britannica, l’accresciuto pericolo di navigazione produsse un’impennata nei costi di spedizione delle merci. I prodotti ammassati nei magazzini adiacenti il porto (in particolare legname, agrumi, cereali, sale, vino, olio) erano portati a destinazione dalla flottiglia locale solo dietro lauto compenso. D’altra parte è doveroso precisare che i rischi erano effettivamente alti. Le cronache dell’epoca riferiscono di un gruppo di dodici barche che, veleggiando verso Brindisi, fu intercettato da una nave da guerra inglese: lo scontato esito finale della piccola battaglia portò alla perdita del carico e alla cattura di tre comandanti che, condotti prigionieri a Malta, riacquistarono la libertà solo dopo il 1815. In quel periodo l’importanza marittima di Grottammare viene ribadita anche da un ufficio governativo che vi risiedeva e che aveva il compito di sorvegliare le operazioni di imbarco e di sbarco effettuate lungo tutto il tratto di costa tra Pedaso e S. Benedetto del Tronto. Contemporaneamente nella cittadina cominciarono a svilupparsi vari insediamenti produttivi che si rivelarono salvifici per l’economia del luogo quando, dopo la sconfitta di Napoleone, decadde l’attività portuale.
Dalla
Restaurazione all’Unità d’Italia Durante la Restaurazione il paese visse un altro momento difficile della sua storia: la crisi della marineria, causata dalle misure protezionistiche adottate dal vicino Regno di Napoli, creò disoccupazione e conseguentemente si ebbe un fenomeno migratorio che ridusse il numero degli abitanti da 4000 a 3000. Alla giurisdizione di Grottammare furono sottratte S. Andrea e Marano nel 1817 e successivamente, nel 1827, S. Benedetto, Acquaviva e Monteprandone. Tuttavia questo sofferto periodo durò poco poiché nella cittadina cominciò a prendere piede il già accennato sviluppo industriale. In particolare il conte Paccaroni riuscì a reperire fondi, tramite la vendita di azioni alla gente del luogo, per realizzare una raffineria dello zucchero. Questo ragguardevole stabilimento, che diede lavoro a 131 dipendenti e che fu l’unico del suo genere nello Stato della Chiesa, andò ad affiancare le già esistenti fabbriche di legname, di liquirizia, di potassa e di cremore di tartaro. Il commercio ed i traffici marittimi ripresero allora con tanto vigore che il governo pontificio decise di aprire sia uno sportello doganale al porto e sia un ufficio per la soprintendenza del sale e dei tabacchi. Le fiorenti attività di importazione ed esportazione indussero alcuni Stati (Francia, Austria, Svezia, Norvegia, Regno di Napoli, Granducato di Toscana) ad aprire loro consolati nel paese, che, nel frattempo, era andato ovviamente ripopolandosi (4050 i residenti nel 1834). Nel ventennio antecedente l’unità d’Italia Grottammare tornò ad assumere un ruolo di primo piano nell’ambito della provincia fermana: già dal 1845 il comune risultò essere capoluogo (con giurisdizione su Marano, S. Andrea, Campofilone e Pedaso) di uno dei sette “Governi” del “Distretto di Fermo”.
La
fran A turbare la tranquillità della cittadina intervenne lo smottamento del 1843: il 5 aprile scivolò verso Est il colle delle Quaglie. Il Mascaretti, storico locale dell’epoca, ha lasciato una descrizione impressionante dell’avvenimento. Il pendio del monte franò in mare formando una lingua di terra lunga oltre mezzo chilometro. La reazione dei flutti fu devastante: tutto il naviglio ancorato al lido di Grottammare ebbe tronche le gomene e a Marano le onde spazzarono con tanta forza il litorale da trascinare via le imbarcazioni assicurate a terra. Questo evento mutò nuovamente la linea di costa nel territorio del paese decretando così la scomparsa finale del luogo riparato ove attraccavano le barche: già nei secoli precedenti, proprio a causa delle frane, il mare era andato via via arretrando (tanto che sul finire del 1700 si diede inizio alla costruzione del nuovo incasato alla marina) e l’avvallamento del colle delle Quaglie finì con l’interrare definitivamente l’insenatura di Grottammare. Nel 1865 il Mascaretti stesso annotò che dell’antico molo non rimaneva in acqua che un breve tratto lungo poco più di 50 metri. Naturalmente ciò non significò la fine delle attività marittime che anzi, come sottolineato in precedenza, mai furono tanto intense come in quegli anni. La cittadina divenne semplicemente sede di un porto di quarta classe: le navi, non potendo più attraccare alla banchina, gettavano l’ancora vicino alla riva e lì, tramite piccole scialuppe, avevano luogo le operazioni di imbarco e di sbarco delle merci.
Intanto i montanti ideali risorgimentali di unità e libertà avevano iniziato a scuotere la vita politica del paese. Se inizialmente i conservatori furono in maggioranza (tanto che, organizzandosi come “Centurioni”, si contrapposero alla locale “vendita” di oltre 100 carbonari) tuttavia col trascorrere del tempo i patrioti videro accrescere progressivamente il loro numero. Alcuni di essi presero parte ai moti del 1831 e successivamente, nel 1849, ancora maggiori furono i proseliti che seguirono Garibaldi (che soggiornò brevemente nella cittadina) nel disperato tentativo di difendere Roma. L’Eroe dei due Mondi trovò vasto seguito fra la popolazione locale: nel 1860 diversi Grottammaresi furono accolti tra le fila dei garibaldini “Cacciatori delle Marche” e tre di essi (Carbonari, Fabi e Palestini) presero addirittura parte alla gloriosa spedizione dei Mille. In quell’anno nel paese si verificarono diversi episodi legati alla Guerra d’Indipendenza. Nel comune insorto, appena giunta la notizia della sconfitta papalina a Castelfidardo (18 settembre 1860), fu eletta una commissione con compiti di governo provvisorio; il giorno seguente, presso il fosso dell’Acquarossa i “Cacciatori delle Marche” tesero un’imboscata alle truppe pontificie in ritirata catturando oltre 500 prigionieri.
E’ interessante ricordare una leggenda secondo la quale il fuggiasco generale Lamoriciere, comandante dei vinti, si fermò in incognito a bussare alla porta di un abitante del luogo chiedendo a costui, in cambio di una lauta ricompensa, di conservare per breve tempo uno scrigno sigillato. Dileguatosi l’ospite, il depositario non riuscì a resistere alla curiosità e aprì il forziere: con sua indicibile meraviglia vi trovò circa quindici milioni di scudi d’oro e d’argento, presumibilmente la “cassa” dell’esercito papalino. Sbigottito e terrorizzato l’uomo si recò nottetempo nell’uliveto antistante villa Azzolino e sotterrò il tesoro. Il misterioso personaggio tornò alcuni mesi dopo e, facendosi accompagnare dall’involontario custode, scavò nel luogo indicato ma non rinvenendo nulla di quanto cercava, avrebbe sicuramente ucciso il poveretto se questi, con grande prontezza di riflessi, non si fosse dato istintivamente alla fuga invocando aiuto a gran voce. Del presunto Lamoriciere, ancora ricercato, non si seppe più nulla, ma anche del tesoro non si ebbe più alcuna notizia: stando alla leggenda ad appropriarsene non dovette essere lo sfortunato che lo ebbe in affidamento giacché egli e la sua famiglia dovettero piuttosto assistere al continuo declino delle proprie fortune finanziarie.
Lo
storico incontro di Vittorio Emanuele II con la delegazione partenopea Durante i concitati giorni immediatamente antecedenti all’annessione al Regno d’Italia Grottammare fu teatro di un avvenimento troppo spesso passato sotto silenzio e non adeguatamente rilevato. Poiché nella Napoli ormai liberata sembravano prendere il sopravvento gli ideali repubblicani propugnati dai garibaldini Crispi, Mordini e Bertani, i notabili della città si affrettarono ad inviare una deputazione a Vittorio Emanuele II per offrirgli la corona borbonica e sollecitarlo ad intervenire. Lo storico incontro fra la delegazione partenopea, guidata da Ruggero Bonghi, ed il re piemontese avvenne il 12 ottobre 1860 proprio a Grottammare, , nel palazzo Laureati. E’ quindi in questa cittadina che si compì “formalmente” l’annessione del regno di Napoli allo Stato Italiano e fu proprio in conseguenza delle proposte nell’occasione ricevute che Vittorio Emanuele II mosse verso Sud dove a Teano si sarebbe poi avuto l’altrettanto storico, solo più noto, incontro con Garibaldi.
Il 4 e 5 novembre 1860 si svolse il plebiscito per l’annessione al Regno d’Italia: su 1042 aventi diritto si recarono al voto 828 cittadini e alla domanda “Volete far parte della Monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II ?” i SI’ furono 828. Il 6 novembre la Commissione municipale affisse il seguente manifesto: “ Regnando Sua Maestà Vittorio Emanuele II, MUNICIPIO DI GROTTAMMARE”.
La
nascita del turismo e le altre attività economiche fino all’epoca fascista L’unità d’Italia ebbe immediate conseguenze, e non tutte positive, nella storia di Grottammare che si vide privata per sempre della sua giurisdizione sui Comuni limitrofi: anzi, grazie ad un decreto del re del 1862, Marano e S. Andrea poterono finalmente appropriarsi del tanto agognato nome di Cupra Marittima. Inoltre la proposta del 1865 per avviare la costruzione del nuovo porto artificiale, dopo decenni di pastoie burocratiche, fu bocciata definitivamente nel 1922 per mancanza di fondi. Grottammare allora, cominciò a basare la sua economia, oltre che sulle attività marittime ed industriali, anche sul nascente turismo. Negli anni 1862 - 63 fu aperto il locale tratto della linea ferroviaria Bologna - Bari cosicché nobili e ricchi possidenti iniziarono ad arrivare nel centro balneare per trascorrervi periodi di villeggiatura. Il clima mite, la salubre aria marina e le verdi pinete diedero al paese anche la fama di luogo curativo e termale: Gaetano Mazzoni ed Augusto Murri, celebri dottori dell’epoca, lo raccomandarono ai loro malati di bronchi per i periodi di convalescenza. Nella cittadina, che in quell’epoca contava poco più di 4000 abitanti, giungevano oltre 700 turisti l’anno. Nel 1873, per opera dei fratelli Rivosecchi, sorse il primo stabilimento balneare consistente in una piattaforma di legno costruita sul mare e dotata di 24 cabine, 12 a sinistra riservate alle donne e 12 a destra per gli uomini (la separazione dei sessi era prevista dall’apposito regolamento comunale per la pubblica decenza e per la tutela del buon costume). Negli ultimi anni del secolo il sindaco Ricciotti volle le pinete e l’ampio Viale Marino lungo il quale si elevarono i villini in stile Liberty. Queste graziose residenze estive furono in maggioranza edificate, nel primo ventennio del Novecento, dal conte e costruttore veneziano Zanchi de Zan il quale poi le vendette a famiglie benestanti e nobiliari che utilizzarono queste seconde case per trascorrere le vacanze al mare. Contemporaneamente sorsero i primi alberghi, i caffè, i ristoranti ed i circoli di ritrovo. Fra gli ospiti illustri di Grottammare vanno menzionati il musicista Franz Listz, gli scrittori Anton Giulio Barrili e Grazia Deledda, lo studioso di storia francescana Paul Sabatier, il clinico medico Augusto Murri ed il pittore, nonché maestro della moderna xilografia, Adolfo de Carolis. Questo tipo di turismo per così dire elitario terminò solo quando, durante l’epoca fascista, iniziarono ad arrivare le colonie ed i treni popolari. Dichiarato ufficialmente nel 1929 “Stazione di cura, soggiorno e turismo”, il paese si adeguò all’accresciuto flusso dei villeggianti aumentando la sua capacità ricettiva e le strutture per lo svago: sorsero nuovi alberghi, campi da tennis, sale da ballo e cinematografi. Anche le attività industriali, con la creazione di nuovi posti di lavoro tra la seconda metà del XIX secolo ed i primi tre decenni del Novecento, contribuirono allo sviluppo di Grottammare. Vanno ricordate, tra le altre, le due fabbriche di fiammiferi che con la loro produzione coprivano l’intero fabbisogno delle Marche e dell’Abruzzo, e la filanda a vapore che realizzava, esportandola anche in Francia, oltre 4000 chili di seta l’anno dando occupazione a più di duecento operai. Alla raffineria dello zucchero, dopo l’unità d’Italia, ne subentrò una di petrolio, ma dopo pochi anni fu fatta chiudere perché ritenuta troppo inquinante e pericolosa. L’attività produttiva si mantenne particolarmente florida anche grazie alle piccole aziende: vanno ricordate le sette fabbriche di pasta alimentare, le nove di botti d’abete e di larice, le due di gesso ed alcune distillerie. Caratteristiche del posto furono le produzioni della rinomata acqua d’arancio, esportata anche in America, e dell’enocianina, sostanza estratta dalle bucce dell’uva ed usata come colorante. Pure i commerci marittimi continuarono a protrarsi nei modi già ricordati fino al 1913, anno in cui il porto della cittadina risultava essere, lungo il tratto di costa compreso tra il Tronto ed Ancona, ancora il secondo per quantità complessiva di prodotti imbarcati e sbarcati. Lo scalo cominciò però poi ad essere progressivamente soppiantato da quello artificiale di S. Benedetto del Tronto, per terminare definitivamente la sua operosità nel secondo dopo guerra.
La vita di Grottammare nel XX secolo è stata ovviamente funestata dalle tragiche conseguenze dei due conflitti mondiali. Nella Grande Guerra tanti furono i combattenti del paese che si distinsero per atti di eroismo e coraggio: i riconoscimenti e le medaglie tuttavia non sono servite alla comunità per dimenticare l’amarezza ed il dolore causati dalla perdita dei suoi settantasei giovani. Altrettanto si può dire per la seconda guerra mondiale quando si contarono cinquantasei caduti, dei quali cinquantadue al fronte e quattro in episodi legati alla Resistenza. Appare doveroso il ricordo dell’operato dei patrioti che animarono nel luogo la lotta al nazifascismo. Il Comando Gruppo Bande Armate si costituì a Grottammare il 17 settembre 1943: ne fecero parte 24 partigiani coadiuvati da decine di fiancheggiatori, fra i quali l’allora sottotenente dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, in servizio a S. Benedetto del Tronto. Il nucleo, raccordato agli altri della zona, operò sui crinali compresi tra i fiumi Tesino, Menocchia ed Aso. Oltre al sabotaggio delle linee nemiche, fu compito del “ Gruppo” nascondere e proteggere i perseguitati dal regime ed i prigionieri alleati evasi. Fra le azioni più significative vanno ricordate la sottrazione di una flottiglia di dragamine tedesche nel porto di San Benedetto (poi condotta nei porti dell’Italia liberata) ed il deragliamento di un grosso treno carico di munizioni e truppe. Non mancarono scontri a fuoco, arresti e fughe audaci fino a quando, il 20 Giugno 1944, Grottammare fu liberata dalle truppe polacche che per prime vi entrarono. Durante il periodo bellico ovviamente tante sono state anche le sofferenze patite dalla popolazione civile: la miseria ed i ripetuti bombardamenti, concentrati soprattutto sulla linea ferroviaria, indussero molti ad abbandonare le proprie case per sfollare nelle vicine campagne. Nella prima metà del ventesimo secolo la vita della cittadina è stata funestata, oltre che dalle due guerre, anche dalla tragica epidemia di “spagnola” del 1918 e dalla catastrofica frana del 1928. La terribile malattia, in un lasso di tempo brevissimo, causò tanti decessi che iniziò a scarseggiare il legname per le bare: per reperire questa ormai insufficiente materia prima si decise addirittura di distruggere l’interno del teatro. Nello smottamento invece persero la vita sedici persone: undici residenti, rimasti travolti dal crollo delle loro abitazioni, e cinque viaggiatori di un treno che, nell’oscurità, non riuscì ad evitare il tragico impatto con la montagna precipitata sui binari.
Terminata la seconda guerra mondiale si ebbero i difficili anni della ricostruzione durante i quali, grazie a sacrifici e rinunce, furono gettate le basi dell’attuale benessere di Grottammare. Di certo la scomparsa delle attività portuali (oggi nella cittadina rimangono solo pochi pescatori) impedì il clamoroso sviluppo che invece ebbe la vicina San Benedetto del Tronto, ma la perdita dell’egemonia nella zona non ha pregiudicato il raggiungimento di ottimi valori nella qualità della vita. Nel paese, terminata definitivamente l’avventura dei primi grandi stabilimenti industriali, sono sorte molte piccole e medie aziende che con la loro vivacità ed il loro dinamismo hanno contribuito a creare un diffuso benessere. Particolarmente importante è stata la riconversione dell’agricoltura tradizionale nell’innovativa coltivazione florovivaistica. Le campagne pullulano di aziende, in maggioranza a conduzione familiare, alcune delle quali hanno raggiunto anche una rilevanza in campo internazionale: si producono e commerciano ogni genere di palma, l’oleandro, il leccio, l’alloro, il melograno, il limone, la lavanda e ancora tante e tante altre varietà di piante e fiori. Naturalmente, e non poteva essere diversamente, il turismo è stato l’elemento determinante dello sviluppo della cittadina. Le bellezze artistiche e naturali, il mare ancora limpido e cristallino, il clima mite, l’ottima cucina (soprattutto quella a base di pesce) sono da sempre le caratteristiche maggiormente apprezzate dai villeggianti che trascorrono i loro periodi di riposo a Grottammare. Proprio queste peculiarità hanno fatto della cittadina un centro di soggiorno apprezzato soprattutto da famiglie che, alla confusione dei grossi centri, preferiscono un'atmosfera più rilassante e tranquilla senza per questo rinunciare ad ogni tipo di svago e comfort.
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